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Consulenza finanziaria: in Europa vietate le commissioni

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Il 17 novembre il Parlamento europeo attraverso la Commissione per gli Affari economici e monetari ha iniziato a discutere sull’abolizione delle commissioni di retrocessione nella consulenza finanziaria.

Se questa proposta dell’Unione Europea diventasse legge, ai consulenti non sarebbe più possibile accettare o sollecitare pagamenti per gli ordini che ricevono dai clienti e che trasmettono: si realizzerebbe quindi una vera e propria rivoluzione delle procedure con cui il settore finanziario presenta ed offre i fondi d’investimento e paga i professionisti che li propongono.

In tal senso sarebbe necessario introdurre un nuovo articolo 39a alla Mifir in cui si “proibirebbe agli internalizzatori sistematici di richiedere qualsiasi compenso o commissione o beneficio non monetario a terzi per l’inoltro degli ordini dei clienti a tali terzi per la loro esecuzione (pagamento per il flusso di ordini)”. L’obiettivo di questa nuova proposta da parte dell’Unione Europea è quello di offrire agli investitori una maggiore trasparenza e soprattutto una rilevante riduzione dei costi.

In alcuni Paesi europei, come Paesi Bassi e Regno Unito, queste commissioni sono già vietate e c’è quindi il desiderio da parte dell’UE di uniformare la situazione ed eliminarle in tutte le Nazioni che fanno parte dell’unione. Quello delle commissioni è da sempre un mondo di difficile comprensione soprattutto per tutti quei risparmiatori che si affacciano per la prima volta nell’universo finanziario e molte volte il loro costo diventa un freno per iniziare ad investire.

Queste commissioni di retrocessione, dette anche kickback o indennità di distribuzione di fondi, sono quelle retribuzioni che un gestore patrimoniale o una banca riceve dalla direzione di un fondo per aver venduto il suo prodotto d’investimento. E’ lampante per tutti che questa tipologia di provvigione può generare un meccanismo di incentivazione poco virtuoso nell’ambito di una consulenza e determinare molto spesso dei conflitti d’interesse, in quanto ad un investitore potrebbe non essere consigliato il prodotto migliore ma quello che garantisce un’indennità di distribuzione più elevata, abbassando contestualmente il rendimento dei risparmiatori.

Ecco perché l’Organizzazione Europea dei Consumatori, BEUC, insieme a  Better Finance e Finance Watch, il 28 novembre ha voluto inviare una nuova lettera alla Commissione Europea, per sensibilizzarla ad accelerare le procedure sul rendere esecutivo il divieto del pagamento delle commissioni nella consulenza finanziaria. Contestualmente BEUC ha anche organizzato una campagna di sensibilizzazione in tutta Europa, tuttora aperta, “The price of bad advice”, dove chiede ai risparmiatori di segnalare al suo indirizzo mail eventuali trattamenti di consulenza di scarsa qualità e nuovi scandali di mis-selling.

Che cosa significa Advice GAP?

Per Advice Gap letteralmente si intende “vuoto di consulenza”, ossia come riduzione della fruizione della consulenza finanziaria da parte di alcuni cittadini e si riferisce soprattutto ad alcune tipologie di potenziali investitori in Italia e in ogni altra Nazione:

  • a quelli che non ricevono un servizio di supporto adeguato nel prendere decisioni di investimento solo perché non possono permettersi i costosi servizi di un consulente finanziario, la cui commissione è generalmente intorno all’1% del valore del patrimonio,
  • a quei risparmiatori che semplicemente preferiscono fare da soli e scelgono di gestire in proprio i risparmi, come per esempio quelli che in Italia optano per un conto titoli in regime di risparmio amministrato,
  • ai giovani sotto i 35 anni e ai patiti di tecnologia, che troverebbero quasi scandaloso avvalersi di un consulente finanziario in carne ed ossa.

Al di là di queste categorie più esposte al fenomeno, è comunque opinione comune che le cause principali dell’advice gap possano essere soprattutto una maggiore resistenza da parte degli utenti stessi a pagare il trasparente fee consulenziale e la poca convenienza da parte degli intermediari, per l’incremento dei costi dei servizi, ad erogarli con risorse limitate alla gran parte dei cittadini.

Questo vuoto di consulenza viene considerato come un effetto indesiderato della MiFiD 2, acronimo di Markets in Financial Instruments Directive, direttiva europea del 2014 e realizzata per offrire ai risparmiatori una maggiore tutela sui servizi finanziari.

L’obiettivo della MIFID sin dalla sua creazione è sempre stato quello di concepire un Mercato sempre più virtuoso, efficiente, che potesse aumentare la competizione su prezzi e livelli di servizio e ridurre i conflitti di interesse tra produzione, distribuzione e consulenza finanziaria, sensibilizzando gli istituti bancari, le Società di Gestione del Risparmio e le Società di Intermediazione Mobiliare ad un approccio più trasparente e meno opportunistico.

Sin da quando si è iniziato a parlare di advice gap, si sono immediatamente create due correnti di pensiero diametralmente opposte: da un lato questo fenomeno è stato considerato come un effetto indesiderato, dall’altro si è creato il falso mito che, a causa di questa abolizione, un gran numero di risparmiatori non abbia più potuto beneficiare della consulenza o non sarebbe più stato in grado di pagare per questo servizio.

Questa teoria è stata però smontata dall’Autorità regolamentativa inglese che ha replicato che il non usufruire del servizio di consulenza è nato dalla diffidenza nei confronti del sistema e dalla sua non effettiva necessità mentre la questione di costi è stata ritenuta solo un problema marginale. Qualunque sia stata la causa, è indubbio che l’advice gap si sia creato perché al momento la legislazione su come trattare le commissioni rimane inadeguata per la mancanza di regole comuni su questo aspetto così importante della consulenza finanziaria e perché questa mancanza di armonizzazione delle regole dei singoli Paesi non viene adeguatamente controllata dalle autorità di vigilanza della UE.

Consulenza finanziaria: le possibili conseguenze del divieto

Le conseguenze che porterebbe l’introduzione di questo divieto, per la consulenza, dovrebbero stravolgere gli odierni modelli di business, che sono ormai consolidati nei grandi gruppi bancari ovunque in Europa. Volendo stravolgere queste regole così radicate e nonostante abbia ben presente quale sia la grandezza degli interessi in gioco, la Commissione europea ha comunque messo nelle mani dell’Europarlamento una proposta che, nel nome della trasparenza e del miglior interesse dell’investitore finale, vuole rimuovere alla radice gli incentivi economici che orientano quali prodotti vengano proposti alla clientela.

Come è noto, le retrocessioni alle banche e alle reti continuano a essere il principale modello di remunerazione della distribuzione dei fondi. Secondo un’analisi condotta da Ernst & Young, una delle quattro società di revisione che si dividono il mercato mondiale della consulenza, queste commissioni in Italia costituiscono nella maggior parte dei casi, sui fondi retail, il 90 o il 100% delle commissioni di sottoscrizione pagate dai clienti e il 40/50% dei costi ricorrenti.

Ecco perché fino ad oggi le banche hanno sempre cercato di spingere con le loro reti sui propri prodotti, quasi sempre sottoperformanti, e non su quelli terzi, che comunque vengono inserite nelle loro offerte: le commissioni di retrocessione sui prodotti di casa propria sono, in generale, più alte rispetto a quelle sui prodotti di case terze.

La conseguenza di questa politica delle nostre banche potrebbe portare le case terze, che sono quasi tutte estere, ad iniziare a concepire una distribuzione diretta dei loro prodotti in Italia.

Le retrocessioni, secondo i calcoli di Excellence Consulting, nel 2020 hanno rappresentato circa il 28% dell’introito commissionale per Fideuram, il 35% per Fineco, il 27% per Banca Generali e il 50% per Allianz Bank. Discorso simile anche per i consulenti finanziari che, se vengono pagati con le retrocessioni sui prodotti raccomandati, che è in assoluto il modello di consulenza finanziaria che presenta i maggiori casi di conflitto di interesse, ricevono fino al 40% delle commissioni di gestione che gravano sul prodotto consigliato, oltre ad eventuali commissioni di ingresso ed un bonus sulla raccolta. E, visto che per i clienti il costo medio dei fondi ruota intorno al 2%, in un portafoglio, per esempio, da 200 mila euro, un investitore pagherebbe 4000 euro all’anno di cui il 40% andrebbe nelle tasche del consulente finanziario che quindi guadagnerebbe 1600 euro mentre i restanti 2400 euro, se lo dividerebbero a cascata la società di gestione e la catena distributiva, come banca e rete.

Contro questa situazione attuale e nella speranza che questa direttiva diventi presto legge stanno spingendo anche due organi consultivi come il Comitato economico e sociale, il CESE, e la BCE: la prima in un suo parere ufficiale ha dichiarato che “ gli intermediari finanziari possono selezionare la sede di negoziazione o la controparte incaricata di eseguire le operazioni dei loro clienti esclusivamente al fine di ottenere le condizioni migliori di esecuzione per tali clienti” e che, premesso ciò, ”i pagamenti materiali o immateriali corrisposti dalla sede di esecuzione o dalla controparte agli intermediari finanziari per la trasmissione degli ordini di esecuzione sono fondamentalmente contrari a detto principio”.

A questa dichiarazione si è aggiunto anche il parere della Banca Centrale Europea che nella Gazzetta Ufficiale ha affermato che “il pagamento per il flusso di ordini può ostacolare l’efficienza del mercato e la trasparenza dei mercati europei dei capitali”.

In attesa di un responso definitivo della Commissione Retail Investment Strategy previsto per il 31 gennaio prossimo si sono quindi create due fazioni opposte, da una parte la maggior parte dell’industria finanziaria europea che vuole mantenere lo status quo e dall’altra le istituzioni e le associazioni dei risparmiatori tra cui anche la Federazione europea degli investitori e degli utilizzatori dei servizi finanziari, la Better Finance, che spingono affinché questo divieto diventi al più presto una normativa comunitaria.

A prescindere, però, che il problema delle commissioni venga risolto o meno, esiste sempre la possibilità alternativa di usufruire della consulenza a parcella, così come avviene con i consulenti finanziari indipendenti a cui il compenso per i servizi resi viene pagato direttamente dagli investitori e dove i costi vengono stabiliti, sin da subito, in base ad un preventivo di intervento chiaro e trasparente e che rispetta alcuni parametri precisi come gli obiettivi da raggiungere, la grandezza del patrimonio da investire, il livello di rischio per chi investe e le tempistiche di erogazione del servizio.

Questo tipo di consulenza elimina anche l’altro problema così inviso alle associazioni dei risparmiatori e alle istituzioni, ossia evita il conflitto di interessi perché quello indipendente è un consulente “Fee-only”, in quanto, per consigliare un determinato prodotto finanziario, non percepisce alcuna provvigione da nessun altro intermediario.

Giulio Benvenuti
Sono fondatore di un hedge fund e fornisco consulenza sulla creazione e sviluppo di hedge fund e veicoli d’investimento con sottostante finanziario, real asset e private Equity / Venture Capital.

Dopo aver lavorato diversi anni in due tra le principali reti di consulenza finanziaria in Italia, ho avviato un attività in proprio fornendo in modo indipendente advisory finanziaria e specializzando le mie competenze negli hedge fund.
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